Questa composizione rappresenta la complicata allegoria della vita umana nota come Tabula Cebetis. Il soggetto è piuttosto diffuso nella pittura e nella stampa del Rinascimento e raffigura l'ecfrasi descritta nell'omonimo dialogo a lungo attribuito a Cebete di Tebe.
La Tabula Cebetis (Κέβητος Θηβαίου Πίναξ) venne pubblicata per la prima volta nel 1494 in greco e nel 1498 tradotta in latino. A queste edizioni ne seguirono svariate altre, tra cui la prima in volgare, tradotta da Francesco Angelo Coccio ed edita da Francesco Marcolini nel 1538 a Venezia. L’autore dell’opera non può essere Cebete di Tebe, seguace di Filolao e di Socrate vissuto tra V e IV secolo a.C. Il contenuto platonico, pitagorico e cinico-stoico dell’opera ha fatto avanzare l’attribuzione allo stoico Cebete di Cizico, vissuto nel I secolo d.C.
Nel dialogo un anziano descrive a due giovani un quadro allegorico presente tra le offerte in un tempio dedicato a Saturno. La tavola mostra il cammino che l'uomo deve percorrere per raggiungere la felicità. Il percorso è articolato in tre recinti concentrici affollati di vizi e pericoli che fanno cadere coloro che ne sono attratti. La virtù e la sapienza portano all'apice del percorso e dunque alla felicità.
Alla riscoperta del testo nel Rinascimento corrisposero varie rappresentazioni in pittura e soprattutto nella stampa (si vedano anche ALU.0570.1, ALU.0570.2 e ALU.0570.3).
La xilografia in questione è di notevoli dimensioni e composta da due fogli incollati insieme, manca il terzo che constituisce la parte destra (tutti gli altri esemplari noti sono completi). Da un punto di vista stilistico si può collocare con sicurezza ad ambito veneziano e agli anni 40 del Cinquecento per la vicinanza con le illustrazioni de Le sorti intitolate giardino di pensieri di Francesco Marcolini, forse dovute agli stessi artefici. Passavant (1868, pp. 239-240) descrive l’opera e riporta l’iscrizione nel margine inferiore “In Venetia il Vicceri”, assente tuttavia in tutti gli esemplari noti, e riferisce l’invenzione a Paolo Veronese.
Sono noti altri esemplari di questa xilografia: due presso il British Museum (ALU.0569.2 e inv. 1860,0414.147; http://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details.aspx?objectId=1516880&partId=1&), uno pubblicato in Schleier 1973 (fig. 38), uno conservato presso il Kupferstichkabinett di Berlino (ALU.0569.3) e uno al Museo Diocesano di Trento (inv. 8100). Uno degli esemplari del British è uno stato successivo e reca un complesso monogramma in basso a sinistra, frutto di una falsificazione successiva (si veda ALU.0569.2). Gli esemplari di Berlino e Trento sono probabilmente i più tardi: sono evidenti infatti molte lacune nella matrice dovute ai tarli, ma il monogramma non è più presente.
Questa xilografia apparteneva alla collezione privata della famiglia Remondini, che comprende 8522 stampe, donate da Giovanni Battista Remondini al Museo Civico di Bassano nel 1849. Come ricostruito da Fernando Rigon la collezione risultava già completa in un inventario manoscritto del 1827, divisa in 79 cartelle per scuola ed epoca, nell'ordine mantenuto fino ad oggi. Rigon riferisce che "trae origine nell'ultimo trentennio del sec. XVIII dal concorso di due distinte raccolte: ad un primo nucleo comprendente incisioni italiane, fiamminghe, francesi, che poco prima del 1777 il conte Antonio Remondini aveva acquistato da un non meglio identificato "celebre uomo di gusto fino e sicuro" si venne ad aggiungere, verso il 1794, la collezione di esemplari italiani e stranieri messa insieme a Venezia dal pittore e incisore don Bernardo Ziliotti. Questi già cospicui gruppi furono poi incrementati e spesso completati per settori e scuole di quanto gli stessi Remondini, favoriti dalla loro attività calcografica, erano andati e andavano raccogliendo per scambi e acquisti" (Rigon F. in Nicolaes Berchem, incisore e inventore 1620 - 1683, stampe dalla Collezione Remondini 1981, p. 7). Quasi tutte le stampe sono rifilate lungo i bordi e incollate a grandi fogli di cartoncino grigio-azzurro (76x54 cm ca.).