Questa grande xilografia è ricavata da due matrici lignee conservate nel Fondo Soliani delle Gallerie Estensi di Modena (nn. inv. 6528 e 6529; ALU.0054-M). Fa parte del "Catalogo Bariola", conservato presso la Galleria Estense di Modena. Il catalogo comprende le impressioni di tutte le matrici della raccolta Soliani-Barelli e venne commissionato tra 1910 e 1915 dall'allora direttore Giulio Bariola (Mozzo 2017, p. 35). La Fortuna bendata, vestita solo da un drappo svolazzante come i suoi capelli, siede su un globo conficcato sulla cima di un albero frondoso. Nelle mani stringe due lunghi rastrelli con i quali fa cadere a caso i ‘frutti’ dolci e amari del destino, dei quali l’albero è carico. Ai piedi dell’albero un’umanità varia e scomposta accoglie i frutti distribuiti dalla Fortuna. Alcune scene paradossali – come un asino oppresso dal peso di un sacco di denaro e un re che incorona un prigioniero malconcio- evocano i mondi alla rovescia del carnevale. Sullo sfondo navi che veleggiano e affondano, città fiorenti e in fiamme. Il tipografo veneziano Francesco Vieceri (o Vicceri), nel XVII secolo, possedeva stampe con la stessa targa presente in questa xilografia che dovettero servire a Barelli da esempio. Uscì dalla bottega del Vieceri anche una tiratura tarda del grande Martirio dei diecimila martiri sul Monte Ararat (ALU.0201.1, .2), la xilografia incisa da Lucantonio degli Uberti alla fine del secondo decennio, che poté forse rappresentare una fonte di ispirazione per l’inventore di questa stampa e la sua umanità brulicante intorno all’Albero della Fortuna. I contenuti stilistici e iconografici dell’opera dovrebbero collocarla cronologicamente nel secondo quarto del Cinquecento. Qualche eco stilistico si rintraccia anche nel frontespizio su disegno di Baldassarre Peruzzi del libro divinatorio Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti, pubblicato a Venezia nel 1527, dove il papa è seduto sul mondo e l’astronomo sovrintende la scena. Venezia nel Cinquecento doveva essere particolarmente sensibile nei confronti di questo tema anche a cagione dei rovesci di fortuna patiti dalla città lungo quasi un decennio per le conseguenze della Lega di Cambrai. Nel 1517 finalmente, con l’ingresso delle truppe veneziane a Verona, la guerra si conclude, gli imperiali sono sconfitti, ma Venezia è stremata. L’anno dopo gli eredi di Manuzio pubblicarono l’opera omnia di Giovanni Pontano. Fra i testi è presente il suo De Fortuna, che fu giudicato trasgressivo perché afferma che Fortuna “opera [... ] con assoluta indifferenza rispetto alle nostre attese, al nostro impegno, alla nostra capacità e soprattutto alla ragione morale e alla giustizia”. Viene tolto spazio alla Provvidenza “la cui certezza era pur sempre assimilabile alla volontà divina [...] la Fortuna tornava ad essere un mito, nel senso di una figura, di una entità reale come nella cultura pagana” (Pontano, Fortuna: Tateo 2012, 42). Le sue azioni, secondo Pontano, dipendono raramente e solo per caso dal comportamento retto degli uomini o dalla Provvidenza, con il conseguente capovolgimento della visione cristiana del mondo (Pontano, Fortuna: Tateo 2012, 50-51). La scrittura di questo trattato da parte dell’umanista partenopeo coincide con gli anni della caduta del Regno aragonese e dell’insediamento degli spagnoli a Napoli, tra il 1500 e il 1501. Anche un altro umanista – sebbene di diversa caratura – Antonio Fileremo Fregoso, in quegli stessi anni e a causa della stessa guerra, doveva fare i conti con i passaggi di potere che segnano anche il destino di un poeta di corte. Nel 1499 il re di Francia Luigi XII entra a Milano mettendo in fuga Ludovico il Moro. Il mite Fregoso riesce a non essere inviso a nessuno ma, defilato e amareggiato, si ritira nella campagna di Lodi. Durante quel primo decennio del Cinquecento scrisse alcuni poemi visionari: il Riso di Democrito e pianto di Eraclito e – anche lui – un trattatello sulla Fortuna. Il Dialogo de Fortuna fu pubblicato per la prima volta a Milano ma sembra che sia divenuto un best seller a Venezia, con due edizioni nel 1521 (Zoppino e Bindoni), e altre nel 1523, nel 1525, nel 1531 (Zoppino) e nel 1547 (Bindoni). Fra le molte teorizzazioni del tema di Fortuna da parte degli umanisti rinascimentali, questa, come quella di Pontano, si segnala per il tono di sostanziale pessimismo. Potrebbe darsi che leggendo o sentendo recitare, magari dal suo editore Zoppino, il Dialogo di Fortuna di Fregoso, un artista veneto o veneziano del terzo decennio del Cinquecento abbia ricavato alcuni elementi e bizzarrie iconografiche per la xilografia oggetto di questa scheda (Urbini, Engramma 162, 2019). Sono noti tre stati di questa stampa, il primo privo di iscrizioni oltre a quella di titolazione, il secondo reca in basso a destra il monogramma apocrifo “1550 MG”, il terzo non presenta traccia di questo monogramma, ma in basso a sinistra l’iscrizione apocrifa “DOMINICUS CAMPAGNOLA MDXVII”. Quest’ultima iscrizione fu intagliata dal mercante di stampe milanese Pietro Barelli che nel XIX secolo, per alcuni anni, possedette le matrici (si veda ALU.0054-M). La stampa oggetto di questa scheda è un terzo stato.
Per un elenco completo degli esemplari si veda ALU.0054.1.